Che mare il Mediterraneo. Chi mai pensa alle tempeste, alle
forti mareggiate, alle navi in balia delle onde che sono andate a sfracellarsi
sugli scogli durante una sfortunata navigazione, su una rotta fatta tante
volte, tenendosi sottocosta. O quelle rovesciate dal vento e dalle onde e
calate a picco portandosi con loro cose comuni e merci dozzinali che oggi
sarebbero un tesoro come quello che alcune di esse sicuramente portavano. O a
quelle attaccate dai pirati, o a quelle dei pirati, con le loro ciurme e i loro
ostaggi, sfortunati nella sfortuna, usciti la mattina prima dell’alba per
lavorare nei campi e affogati la sera con i loro rapitori. Qualcuno attenderà
invano una richiesta di riscatto. Chi pensa mai alla fatica della gente di
mare, al lavoro dei pescatori: a quelli di una volta, che si rammendavano le
reti, che si bruciavano al sole e al sale, e che a volte non tornavano. Il
vecchio e il mare. Che mare il Mediterraneo. Il bianco, il verde, il blu. Il
rosso del sole al tramonto. Colori da cartolina. Che mare il Mediterraneo:
quanta vita, quanta storia. Per uno che dorme sulla collina, quanti dormono
nelle sue acque?
Se sei a Lubecca è normale pensare che puoi prendere
l’autostrada e andare a Berlino, scendere per il Brennero e arrivare a Reggio
Calabria. Ma se sei seduto su una spiaggia, con i piedi a mollo sul bagnasciuga
o solleticati dalla verdurina degli scogli, mossa dalla risacca, il pensare di
raggiungere un’altra spiaggia o un altro scoglio, di un’altra religione o di
un’altra cultura, di un’altra storia o di un altro dialetto, così,
“semplicemente” andando dritto, spinto dal vento e portato dalle onde, ha
qualcosa di magico e di miracoloso. Sembra quasi che si possa respirare la
stessa aria, lo stesso sale, bruciare dello stesso sole. I fichi d’india sono
uguali in tutto il Mediterraneo. Ma forse non le loro spine.
Pensavo. Come ho pensato tante volte. Seduto, questa volta,
all’ombra di un ombrellone. Bar ristorante, con il tavolo che dondola, come tutti
qui. Sarà una tradizione. Bevevo una birra. Qui tutti bevono una birra. Fa
estate e a volte la bevo anch’io, anche se non ne vado matto. La unica che mi
piace, la rossa, qui non ce l’hanno. Vabbè. Pazienza.
Il lungomare è veramente lungo; e largo. E così la spiaggia.
Una spiaggia infinita. Il mare, la spiaggia, io e la casa-museo di Blasco
Ibagnez. Come l’allineamento delle piramidi. Una congiunzione astrale. Anche se
verrebbe da chiedersi cosa mi accomuna allo scrittore valenciano. Forse solo la
passione per il mare. Ma lui era appassionato del mare? E io lo sono? Lo sono
veramente? O lo potrei essere, se riuscissi a non “spalmarmi” sulle mie tante
passioni. Se lo fossi veramente, pensavo, non cederei alla pigrizia di stare
qui seduto a guardare la gente passeggiare e qualche culo degno di nota di
tanto in tanto. Se lo fossi veramente andrei almeno a bagnarmi i piedi
nell’acqua: la stessa con la quale si stanno ora schizzando i bambini che
giocano sulla spiaggia di un’isola greca o quella che staranno guardando alcune
donne egiziane completamente vestite di nero, con velo e guanti, sedute sulle
loro sdraio, sotto gli ombrelloni, nelle spiagge private di alberghi e
residence vicino ad Alessandria.
Basta. Ho deciso di esserlo veramente. Un appassionato del mare,
dico. Vado a bagnarmi i piedi. Da qui al mare saranno almeno 400 metri: una
bella prova. Pago la birra e mi avvio al muretto che separa il lungomare dalla
spiaggia. Mi siedo e mi tolgo le scarpe, lego i lacci di una con quelli
dell’altra e me le metto su una spalla, a penzoloni, una davanti e l’altra
dietro. Non posso non pensare all’aretino Pietro. La sabbia scotta ancora,
anche se si sta facendo sera. Supero la linea delle docce. Non ci sono
stabilimenti, non ci sono quadrati di ombrelloni colorati come soldati
seicenteschi in attesa che il nemico caracolli. Solo crocchi di gente qua e la,
coppie intorcinate e mamme annoiate che sperano che il pargolo abbia corso
abbastanza per cadere sfinito appena tornato a casa, consentendo così una
sessione di sesso ad un’ora decente. Sto risalendo il flusso perché, molti
cominciano a ripiegare, dopo aver tenuto testa per ore ad un sole ruggente che
adesso, scendendo, allunga le ombre.
Ormai sono in vista del bagnasciuga, che scende verso il
mare.
Potrei entrare in acqua in quel punto e nuotare, sempre
dritto; passare il canale di Sicilia e quello di Suez, piegare a sud dopo il
Corno d’Africa, passare sotto la penisola indiana e, lasciandomi a destra
l’Australia, presentarmi di fronte alle coste americane e decidere se tagliare
per il canale di Panama o scendere fino alla Terra del Fuoco per poi risalire
verso le Canarie e ritornare in questo stesso punto attraverso lo stretto di
Gibilterra. Sembra un po’ un viaggio di Indiana Jones, ma l’idea di fare il
giro del mondo senza mai toccare terra è una delle cose che più mi affascinano
del mare.
Vicino a me un bambino disegna semicerchi sulla spiaggia con
un bastoncino di ghiacciolo o di cremino. Non avrà più di tre anni, forse
quattro. La mamma sonnecchia, ma forse non lo perde d’occhio. I piccoli
semicerchi sembrano buttati li a caso, ma guardando bene formano un insieme
armonico, quasi logico.
Due ovali, uniti. Un po’ come una gemmazione. Il primo ha un
lato concavo e uno convesso ed è lì, in alto, che si innesta l’altro, un po’
più irregolare, piegato verso destra, con una specie di appendice che ne
modifica la forma.
Il lato concavo del primo è interrotto nel mezzo, e da li
parte una riga che raggiunge l’altro estremo nel punto in cui incontra l’altro
ovulo. Lungo di essa, a destra e a sinistra, quattro semicerchi, due per lato,
con la parte concava verso la riga. Anche nel secondo ovulo c’è una riga, che
parte dove finisce la prima ed è orientata in alto a destra. A cavallo di essa
si susseguono tre ellissi di dimensioni via via più piccole. Alla loro destra,
a riempire l’appendice, altre due piccole ellissi, i cui raggi maggiori sono
leggermente più orizzontali.
Chissà cosa passa nella testa di un bambino così piccolo
perché possa disegnare una cosa così complicata. La guardo meglio e mi pare di
aver già visto qualcosa del genere. Cerco di ricordare. È la pianta dei templi
neolitici di Tarxien, a Malta. Guardo il mare e mi sembra di vederla l’isola di
Malta, li in fondo, un pò scostata a sinistra.
Ma come può un bambino così piccolo disegnare a memoria una
cosa così complicata. Chissà quante volte l’ha vista. Magari la madre è un’archeologa.
O il padre. O la ricorda perché in un’altra vita era un sacerdote della dea
dell’abbondanza?
_________________________________
di Alessandro Morello
Che mare il Mediterraneo.
Pennello e Pennino