Come si contava il tempo nel neolitico? Quei due bambini che
giocavano sulla spiaggia avevano idea di quanto tempo era passato, e da cosa? E
i loro padri lo sapevano? Di certo uno di loro sapeva quanto tempo era passato
da che la morte aveva cominciato a visitare sempre più spesso il suo villaggio,
tanto che sembrava che l’aria stessa la portasse. Per questo avevano deciso di
spostarsi, di insediarsi su un’altra collina, e poi su di un’altra e un’altra
ancora senza che però l’aria si pulisse. Finché un giorno alcuni giovani del
villaggio, che si erano allontanati in cerca di una buona zona ancora più
lontana, dove l’aria della morte non fosse arrivata e non potesse arrivare,
tornarono di corsa e raccontarono, in preda ad una eccitazione quasi infantile,
quello che avevano visto. Oltre i monti, a tre giorni di marcia, lasciandosi
sempre a destra il sole che lascia il posto alla luna, vi era una grande piana,
chiusa in parte da una serie di colline ma che si andava via via aprendo e il
verde finiva in una linea di terra gialla che costeggiava una quantità mai
vista di acqua, di un blu acceso, che si muoveva continuamente, disegnando
delle trecce bianche che apparivano e scomparivano senza sosta e che si
andavano a depositare sulla terra che, senza dubbio per questo, si stava
schiarendo sempre più.
Sicuramente tanta acqua sarebbe stata sufficiente a lavare
la polvere della morte. Ma così non fu. Qualcosa stava migliorando, ma la comunità
continuava a ridursi. La cosa non era passata inosservata alla gente che
abitava il promontorio e che da sempre aveva imparato a cacciare gli animale
che vivevano nel mare e a spingersi sempre più lontano per pescare. Si erano
accorti, questi pescatori, che qualcosa non andava nei nuovi venuti e per
questo avevano proibito di avere contatti con loro. E per questo i due bambini
si incontravano di nascosto, nella piccola insenatura, quasi un taglio nella
roccia, a metà strada tra i due insediamenti. Qualcosa li accomunava, qualcosa
li attraeva, ma loro certo non sapevano cosa; probabilmente ancora nessuno
avrebbe potuto saperlo.
A quella età i problemi dei grandi svaniscono come una
manciata di sabbia lasciata cadere alle proprie spalle, ma poi si ripresentano
inaspettati come se tutta la sabbia tirata alle proprie spalle ti cadesse in
testa in un solo momento, tanto da lasciarti con i sensi offuscati ed i piedi
incapaci di muoversi. Questo effetto deve aver avuto su di loro la notizia: i
grandi si erano messi d’accordo. I pescatori avrebbero accompagnato i più
giovani ed i più forti degli ultimi arrivati su una terra che avevano visto da
lontano quelli che più lontano si spingevano a pescare. Gli altri si sarebbero
allontanati nella valle.
Quel giorno sarebbe stato il giorno del loro addio. Ma i
bambini pensano che i grandi possano decidere del loro futuro e così anche loro
due pensarono che da grandi avrebbero voluto cercarsi e rincontrarsi. E questo
si giurarono di farlo. E per evitare che il lavoro del tempo sui loro corpi non
li facesse riconoscere, si incisero sul braccio due piccoli semicerchi separati
da una riga: il mare che unisce due terre. Una conchiglia da poco arrivata
sulla spiaggia, rotta, ma non ancora smussata dallo strofinarsi sulla sabbia
sballottata dal mare, era perfetta per questa piccola cerimonia.
I bambini pensano che i grandi possano decidere tutto. I
grandi sanno che non è così. Non si rividero mai più.
Il tempio di Tarxien, a Malta, non è ormai che un ammasso di
pietre quasi insignificanti agli occhi inesperti di chi le guarda, a meno che
non ci si sieda e si rimanga a pensare a gli uomini che lo costruirono, alla
gente, alla vita li intorno e che quegli occhi possano vedere cose mai viste e
immaginare, intuire, non importa che sia la verità, ma un’idea: il respiro
della gente che è stata li, i loro pensieri, i loro sentimenti, le loro gioie e
le loro paure. Le loro impressioni, nel costruirli, nel frequentarli e nel
ritrovarli.
Chissà se il custode del sito archeologico ha questa
sensibilità, o se forse l’abbia avuta nei primi giorni del suo lavoro, prima
che la normalità e la noia avessero il sopravvento; tanto tempo fa, forse molto
prima di iniziare a lavorare li, perché magari li vicino lui c’è nato e per lui
quella è normalità da sempre.
Il turista è arrivato ieri dalla Sicilia. Da tanto voleva
venire a vedere i templi di Malta. Come una attrazione senza senso. Fa caldo.
Il sole picchia forte sui fichi d’india e sull’asfalto lucido. Il cappello con
le larghe falde protegge bene il viso dal sole. Ma per non bruciarsi troppo la
pelle meglio di tirarsi giù le maniche della camicia. Peccato.
Peccato perché quando va a pagare i pochi euro del biglietto
di ingresso il custode non può vedere che sul braccio ci sono gli stessi strani
segni che lui ha sul suo da sempre e che nessuno mai si è saputo spiegare.
Peccato che proprio ieri sia scivolato, perché neanche il turista ha potuto
vedere sul suo braccio gli stessi segni nascosti dalla fasciatura.
Peccato.
Dovranno aspettare ancora un pò.
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di Alessandro Morello
Peccato.
Pennello e Pennino